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Napoli

Il vento del Sud che soffia verso una costa fra cielo e mare, fra mitici vulcani, pinete distese su dolci declivi e strade affollate evoca l’incanto antico ma quanto mai vivo di una città come Napoli. Qui Natura e Cultura, Paesaggio e Arte, Storia e Mito in un’interazione mai sopita, hanno delineato un’ineffabile immagine dove, come ineguagliabili tessere di un sorprendente mosaico, tutti gli elementi si combinano fra loro: il fuoco di una terra perennemente inquieta ridisegna un paesaggio e la sua città dove le barocche forme dei portali in piperno e delle volute in stucco sembrano tradurre in pietra il perenne agitarsi delle onde del mare. E al viaggiatore d’ogni tempo, Napoli, mai stanca, continua a raccontare la sua millenaria storia, dal mito di napoliPartenope alle spettacolari eruzioni del Vesuvio, dalla romanità alla cultura bizantina in un dialogo mai interrotto fra Occidente ed Oriente, dagli splendori angioini ed aragonesi alla lunga presenza spagnola fino ai fasti borbonici celebrati nelle più colte descrizioni dei viaggiatori del Grand Tour…. un incessante rêverie, un continuo evocare un passato ancora palpabile nella cultura del presente.

Da quando Neapolis è nata da Partenope tutte le civiltà mediterranee hanno permeato questa città come nessun altra lasciandola sempre profondamente riconoscibile: miti, splendori, colori, sapori, culture della terra e del mare drammatizzate nei riti della vita e della morte. Terra dai mille contrasti, natura prodiga e terrifica, abbacinanti cieli e oscuri quanto impenetrabili meandri,cultura_jvg6y.T0 vedute senza confini, con paesaggi ariosi di colline lambite dal mare interrotti da suggestioni ctonie di miti virgiliani fra antri e profonde grotte: Napoli attrae, evoca, racconta…. ‹‹Avvicinandoci a Napoli (…) ci trovammo davvero in un altro mondo›› ebbe a scrivere Goethe arrivando nella città che allora come oggi si racconta con passione nelle sue architetture, nelle chiese, nei palazzi gentilizi, nei musei…. ma anche nei colori delle strade affollate dalla sua gente.









Campania

Le aree interne della Campania, la Baronia e l’Alta Irpinia, sono state, grazie alla loro posizione a cavallo di valichi, di facile accesso tra aree produttive di notevole importanza quali la Campania e la Puglia, territori relativamente privilegiati dell’Italia meridionale interna. Come dimostrano i rinvenimenti archeologici nelle aree sepolcrali di età preromana di Carife, Castel Baronia, Cairano, Conza, Morra de Santis e Bisaccia e nel santuario di Mefite della valle d’Arisanto, almeno fin dal VII secolo a.C., l’economia non doveva essere più basata esclusivamente sull’allevamento transumante e su una grama agricoltura di sussistenza, ma anche sui vantaggi derivanti dal controllo di uno dei più importanti tratturi e delle vie commerciali dall’Etruria tirrenica per il tramite del Lazio e della Campania e dei centri etruschi e greci di tali regioni verso la Daunia, la Peucezia e le colonie greche sullo Ionio. Ciò ha contribuito, insieme con i proventi del mercenariato presso Etruschi e Greci, al crearsi fin dal VI secolo a.C. di una società articolata, con ceti emergenti dei cui capitali è indizio l’accumulo di oggetti di lusso importanti, tra cui soprattutto vasi di bronzo, ma anche la graduale acculturazione attraverso l’introduzione di costumanze greche e di istituzioni giuridiche. In questa fase sono cominciati a sorgere anche edifici in pietrarame a Cairano e Casalbore; risalgono a questo periodo le tombe a camera di Carife e nel territorio di Ariano Irpino, mentre sono testimonianze eloquenti delle necessità di difesa durante le guerre sannitiche, le fortezze di confine quali l’Incoronata di Monteverde e Monte Oppido a Lioni. La conquista romana comportò il parziale spopolamento della regione, spopolamento in parte compensato dalle deduzioni di coloni a Benevento e a Venosa, e creò le premesse per il prolungamento della Via Appia verso Brindisi. Mentre l’immissione di coloni liguri ha riguardato la parte settentrionale dell’Irpinia,

le assegnazioni di terreni promosse da Tiberio e Caio Gracco, intorno al 120 a.C., ha riguardato le alte valli LA MEGA SALSICCIA DELL'ALTA IRPINIAdell’Ofanto e del Calore e dell’alta valle Ufita, dove sorsero fattorie ed un centro urbano di notevole importanza quale Floccaglia di Flumeri, distrutto presumibilemente nella fase finale della repressione della rivolta dei soci italici contro Roma intorno all’89 a.C., che mise fine all’indipendenza sannitica anche sotto il profilo culturale. L’assetto territoriale preesistente rimase invariato per tutto il periodo della pax romana, durante il quale il sistema viario già creato, di cui faceva parte, oltre all’Appia, la via Aemilia, che passava per Floccaglia, e la via sul tracciato del tratturo Pescasseroli-Candela, fu poi potenziato con la via Traiana a la via Aurelia Aeclanensis, nella valle di Flumarelle, che costituì insieme alla produzione agricola la base per lo sviluppo economico della zona. All’interno di questo contesto storico, qui soltanto accennato, il territorio dell’alta Irpinia offre un ventaglio di occasioni e di opportunità particolarmente stimolanti al fine di disegnare una strategia del suo utilizzo sotto il profilo turistico culturale. L’area dell’Alta Irpinia rappresenta un’area omogenea tipica della realtà socio-economico dellaCampania interna, una realtà che ha conservato appieno le peculiarità storico culturali e le specifiche tradizioni etnografiche ed enogastronomiche; è questo un patrimonio sul quale va strutturato e disegnato un percorso, in parte già tracciato, di sviluppo economico duraturo che basi le proprieALTA IRPINIA radici sulle potenzialità inesplorate del rilevante patrimonio storico, ambientale, archeologico, architettonico, museale, etnografico e gastronomico delle “aree interne”, un percorso che muovendosi in piena sintonia con gli strumenti e gli obiettivi della “valorizzazione delle peculiarità” può offrire l’occasione di determinare e costruire un’offerta articolata ed originale diservizi turistici e culturali.

Sotto il cielo più puro, il terreno più infido. Rovine di un’opulenza appena credibile, tristi maledette. Acque bollenti, zolfo, grotte esalanti vapori, montagne di scorie ribelli ad ogni vegetazione, lande deserte e malinconiche, ma alla fine una vegetazione lussureggiante, che si insinua da per tutto dove appena è possibile, che si solleva sopra tutte le cose morte in riva ai laghi e ai ruscelli e arriva fino a conquistare la più superba selva di un cratere spento. Così siamo continuamente palleggiati fra le vicende della natura e della storia. Si vorrebbe meditare, ma non ci sentiamo capaci». Con queste parole Goethe delineava l’iperbole dei luoghi flegrei inseriti fra le suggestioni del suo celebre Viaggio in Italia. Terra di spettacolari fenomeni vulcanici, un paesaggio di crateri fumanti fra cielo e mare, una costa disegnata da un incessante bradisismo, laghi sgorgati da crateri inabissati, una terra fertile e mirabile ricca di fonti di acque salutifere…sono solo alcuni dei motivi che suggerirono ai primi colonizzatori ellenici la denominazione di Campi Flegrei (Campi Ardenti) per quella regione a ponente di Napoli compresa fra Posillipo e Cuma e protesa nel mare con le isole di Nisida, Procida e Ischia. Qui gli antichi attinsero le credenze mitologiche e in questo mare, drammatizzando le catastrofiche eruzioni vulcaniche, ambientarono le mitiche battaglie di Giove contro i Titani Tifeo (Ischia) e Mimante (Procida).

Le infinite suggestioni del paesaggio flegreo esercitarono gran fascino sulla plutocrazia romana che qui fissò i luoghi elettivi per gli otia costruendo, soprattutto lungo l’arco costiero, sontuose ville marittime aperte su straordinarie vedute sul mare. Contemporaneamente Cuma si qualificò come la città sacra dedicata al culto di Apollo, Miseno, ricca di insenature naturali, divenne sede della potenza navale di Roma per il controllo del Mediterraneo e Pozzuoli, con il suo celebre porto, diventò il grande emporio commerciale nelle rotte mediterranee. I Campi Flegrei vivevano così la stagione aulica della coppa d’oro dispensatrice di prosperità e destinata a una crescente celebrità destinata a durare ben oltre i fasti romani. Superata l’età classica, in una continuità fra antico e moderno, Pozzuoli, Baia e Cuma continueranno a ispirare la cultura europea così attratta dall’immagine solare della geografia virgiliana: una cultura delineata dal contributo di artisti e viaggiatori di ogni tempo che costruirà un immaginario dei Campi Flegrei dove la Storia si confonde con il Mito. Paesaggio dalle mille seduzioni quello dei Campi Flegrei, mirabil cornucopia, dove, fra passione archeologica e immagine letteraria, è possibile altresì gustare squisiti prodotti della terra, primi fra tutti i vini rinomati fin dall’età romana che rimandano a un’immagine di colline ornate da fitti vitigni digradanti verso la costa.

Dalla seconda metà del XVIII secolo, sotto la dominazione spagnola, Caserta è diventata uno dei cinque capoluoghi della regione Campania. In origine la vasta pianura attraversata dal fiume Volturo era stata antropizzata da Etruschi e Sanniti e poi colonizzata dagli antichi Romani quando, stando allo storico Polibio , qui già esistevano le più nobili città di Italia federate intorno all’antica Capua, ossia all’odierna S. Maria Capua Vetere. Il territorio fu conquistato dai Longobardi e dai Normanni, che fondarono Aversa, e nel medioevo l’intera provincia, estesa dai monti del Matese al mare del litorale Domitio, fu spartito in feudi di contee e ducati. Caserta fu governata a lungo dai conti De Larath, che dall’anno 871 dimoravano sull’antico borgo fortificato sul colle Virgo dei monti Tifatini. Lassù s’erano arroccate anche la sede del vescovo Galtino e le case dei villici protette dal castello e dalla grande torre cilindrica fatta erigere da Federico II di Svevia. All’alba del XII secolo, quando Casertavecchia ricadeva ancora sotto la signoria dei Lauro San Severino, sorsero le prime borgate esterne (Casola, Sommana Pozzo Vetere), e quindi diversi altri casali agricoli, pedemontani e vallivi, oggi frazioni urbane. Intanto nella cinta collinare il vescovo Rainulfo aveva fatto costruire anche il Duomo romanico, che fu poi integrato da forme arabo-mussulmane, e consolidare la Diocesi, che per tema delle invasioni barbariche rimase lassù fino al XIX secolo. Invece nel 1237 Don Diego De Larath fece trasferire la civitas nel villaggio di pianura della Torre, dove la nuova casa del conte fu ristrutturata da quel semplice fortilizio a palazzo del principe Acquaviva d’Aragona nella seconda metà del Cinquecento.

Nel 1752 quello Stato ducale si costituiva di 26 città e villaggi, che insieme alle tenute di caccia, da quella agricola di Carditello a quelle boschive di San Leucio e San Silvestro, il conte Michelangelo Caetani di Sermoneta fu costretto a vendere per debiti a re Carlo III di Borbone. Il monarca spagnolo destinò le tenute alle reali delizie della sua Corte, ponendo accanto ai rispettivi casini di caccia una colonia agricola, serica e mandriana. Poi volle porre sul territorio una reggia prestigiosa, altamente rappresentativa ed innovativa e così rifiutò il progetto di Mario Gioffredo e, anche per migliorare i rapporti con il papa Bonifacio VIII, affidò l’incarico all’architetto napoletano, ma romano d’adozione, Luigi Vanvitelli. cas1I lavori della Reggia durarono trent’anni per metà dei quali l’immenso cantiere fu affidato capo mastro Pietro Bernasconi, e per l’altra all’architetto Carlo Vanvitelli, che diresse i lavori ideati dal padre con la collaborazione di Marcello Fanton, Francesco Collecini e Giovanni Patturelli. L’opera di gusto neoclassica, ma dove lo stile barocco è evidente specialmente nel vestibolo superiore del scala regia, presenta i volumi – dei due corpi di fabbrica che si intersecano ad angolo retto e di quelli al contorno –posti a quadrilatero.

Il Cilento, il cui nome deriva da cis Alentum (al si sopra dell’Alento), ha un’estensione complessiva di 3226.5 Kmq e 98 Comuni comprendenti anche quelli del Vallo di Diano. amalafede_scorcioIl territorio, nella sua variegata caratterizzazione è ricco di stratificazioni storiche. Luogo di confluenze di aspetti profondamente diversi, ma tra loro interconnessi, il Cilento si caratterizza per le significative emergenze culturali, ambientali e paesaggistiche, architettoniche ed artistiche. Tali emergenze, espressione di complesse geografie religiose e territoriali, configurano un interessante panorama su cui, oggi, è possibile rilanciare proposte ed approfondimenti. Sono i “segni” di una cultura che ha visto, nel corso dei secoli, l’arrivo di genti, le più diverse, in una commistione di eventi che si coniugano in una perfetta simbiosi. L’intero comprensorio è compreso tra i due bacini dei fiumi Lambro e Mingardo; il paesaggio è variegato ed è caratterizzato dai piccoli centri abitati dell’interno abbarbicati alle pendici delle colline coperte dalla macchia mediterranea e dai borghi marini distesi nelle anse della costa. I “luoghi del sacro” quali monasteri, eremi, abbazie, insediamenti in grotte, si contrappongono ai luoghi del “quotidiano” quali le architetture rurali, i casali e le masserie distribuite sul territorio. Un binomio che ha profonde radici e che trova riscontri nella storia del territorio. Da una parte la religiosità intensa del monachesimo basiliano, (orientale) che sin dall’VIII secolo si diffonde nel Meridione ed in questa parte del nostro Cilento. I basiliani si insediarono e con gran slancio evangelizzarono il territorio con la proposizione e l’elezione al culto di nuovi Santi orientali. E fra i segni che hanno costruito l’identità sacra del Cilento, delineando una continuità fra religiosità greca e ritualità latina, ancora fortemente evocativi sono gli insediamenti rupestri di Olevano sul Tusciano e S. Angelo a Fasanella, dedicati a S. Michele, e la badia greca di Pattano che custodisce una documentazione iconografica di notevole interesse artistico.

Una terra unica, in quanto paesaggio vivente, la cui identità è data dall’esaltazione delle sue differenze. Una terra che una storiografia superficiale e razzista ha definito “triste” e dei “briganti”, mortificandola ed emarginandola. Una realtà con una storia nobile e un’arte sublime della più nota Paestum, Velia e sulla cui scia, riacquistano visibilità i centri di Policastro e Roccagloriosa, Civitella e Novi Velia. Terra di miti greci e romani il Cilento ha ispirato da sempre poeti, cantori e viaggiatori. La natura, selvaggia e viva nei monti e nelle valli più interne, ha ancora le sue coste intatte ricche di grotte e insenature. Le sue montagne sono interessate da fenomeni carsici e nella ricchezza di specie vegetali endemiche, uniche aree di una beltà naturale e di un’importanza estetica eccezionale, risultano essere aspetto straordinario del territorio.25072014_copersito-di-Torchiara_03 “Transitare” nel Cilento è un’opportunità unica, irripetibile; transitare in un mondo solare e misterioso, tipico dei paesaggi mediterranei, che si rispecchia in ogni palmo di questa terra. Una terra descritta degnamente da Guido Piovene che annota: “Sotto Paestum si inizia la parte meno conosciuta della costa campana. Forse perchè ancora semisegreta, è parsa a me la più bella. Piccole baie solitarie, scogli e banchi di rocce su cui scendono pini ed olivi, soavi e primitive colture: la natura è ancora difesa da un’arcaica arretratezza.”

Terre segnate da una storia millenaria, a partire dal passaggio di Annibale, il Sannio offre l’immagine di un paesaggio dove la natura e la sedimentazione storica hanno costruito nel tempo l’immagine di un luogo dalla forte identità. Un ideale itinerario può iniziare da Cerreto Sannita, città dall’impianto urbano ricostruito successivamente al terremoto del 1688 su progetto del regio ingegnere G. B. Manni, e continuare per la strada verso Cusano Mutri attraverso la gola racchiusa da Monte Monaco di Gioia e Monte Cigno. Dall’alto del ponte Lavelle è possibile osservare come il fiume Titerno nel corso dei secoli ha formato piccoli canyons. L’itinerario prosegue verso la “Cantina del Sannio” così denominata perché luoghi di produzione di rinominati vini DOC campani: Solopaca, Aglianico, Falangina e Solopaca per citare soltanto i più celebri.

Attraverso mirabili paesaggi, fra arte degustazioni e tradizioni popolari, è possibile continuare percorrendo la strada per S. Salvatore Telesino dove incontriamo il parco del Grassano e più avanti il parco archeologico dell’antica Telesia con pregevoli vestigia di mura, porte urbane ed edifici termali. Giunti a Faicchio l’itinerario continua con la visita al ponte di Fabio Massimo e al castello ducale per poi concludersi a Castelvenere percorrendo la “strada del vino” con visita alle antiche cantine ricavate nel tufo. Nei dintorni di Castelvenere è possibile altresì visitare i laboratori artigiani di ceramiche artistiche cerretesi dove è possibile ancora acquistare ceramiche legate alla locale antica tradizione settecentesca.

La più antica poesia ha cantato la bellezza come consolazione degli uomini che, incantati dall’armonia, danno un senso alla vita. La sapienza che si illumina di bellezza e trova un saldo rapporto con le forze della natura, apprende il segreto dell’equilibrio e crea monumenti di umanità proprio dove l’aria, la terra, l’acqua e il fuoco rivelano la loro potenza elementare e la armonizzano con le opere degli uomini. Questa è la lezione che ci viene dalle terre Vesuviane dove la Montagna di fuoco, tangibile presenza dono di terre fertili e vigore primordiale, è signora del destino. Il Vesuvio ha dato vita a Napoli alle terre vesuviane ha dato la possibilità di coniugare forza e bellezza, per dare al filosofo ed allo scienziato strumenti di saggezza e di progresso. Le terre vesuviane respirano tra il Vesuvio e il mare, hanno memorie antichissime, sono famose nel mondo per gli Scavi Archeologici e le splendide architetture del Settecento. Le bellezze naturali hanno accolto le massime espressioni dell’umanità che progetta, aedifica, coltiva, commercia, rende alla magnificenza della natura il canto della poesia e lo splendore dell’immaginario artistico, esprime nelle danze tradizionali il sapore della civiltà contadina.

E’ emozionante vivere a contatto con le forze primordiali, con le vive energie della natura e intanto custodire memorie delle più antiche civiltà della Mater Mediterranea. Nelle città Vesuviane si può toccare con mano la storia antica soprattutto ad Ercolano e a Pompei, e si possono gustare i frutti tradizionali di una gloriosa civiltà agro-alimentare. Chi viene per conoscere il passato viene coinvolto da una gioiosa tradizione di accoglienza. Avrà la gioia di vivere in un clima di festa, brindare con vini di grande prestigio, apprezzare la maestria di famosi artisti che lavorano il corallo, scolpendolo o incidendolo. Le terre vesuviane sono la faccia più antica di Napoli e custodiscono l’orgoglio di splendori, di sapienza ed umanità che si apprendono per diretta conoscenza, da vicino: non ci sono parole per descriverli.

Enogastronomia

Contaminazioni tra diverse e millenarie culture sulle tavole aristocratiche , sulle popolari . Nella terra dei Cavalcanti ,del Marchese del Tufo, del Crisci, del Corrado, degli Stefanile e tanti altri che hanno vergato, quasi modellato, dato forma ,anche letteraria , al concetto di “ civilta’ della tavola”.

Gli animali si pascono, l’uomo mangia,solo l’uomo di spirito sa mangiare

A.B.Savarin, scrittore

Scrittori,uomini di cultura , poeti, giornalisti, nella seconda meta’ del 900(1963) , nell’intento di comunicare, divulgare il vasto patrimonio culturale che sottende a cibi e ricette di Napoli e la campania fondano “l’ordine del pignato grasso “(Adriano Falvo, Enzo Fiore, Salvatore Gaetani, Tommaso Leonetti, Mario Mastrolilli, Stanislao Pagliari, Vincenzo M.Palmieri, Luigi Giarrusso) identificativo che trae origine dalla mitica minestra maritata (grassa e cotta nel pignato) elaborata in varie forme ed epoche in tutta la regione.

Oggi la minestra maritata è tornata in auge nelle famiglie legate alla tradizione e in parecchi ristoranti, trattorie, osterie della Campania, specie dell’entroterra, dov’e più facile trovare gli ingredienti, adatti per ammannire questo piatto invitante, buono e saporoso quasi emblema dell’estro di un popolo che da piccole ed umili cose , da comuni verdure e da ritagli di carne fresca o salata riesce a comporre un sinfonia di sapori, una armonia di odori, quasi un rituale dell’unita’ domestica.

Margherita Volpi, scrittrice

La pietanza esige un nostrano rosso generoso (parliamo di vini!) : un SOLOPACA, un LETTERE, il VESUVIO, il FALERNO, il TRAMONTI, il TAURASI ,l’AGLIANICO del TABURNO, il GUARDIOLO, il PALLAGRELLO, insomma uno dei tanti rossi prodotti in campania . Gusto ed olfatto incoronano la pastiera come regina della Pasqua (ma non solo).

PASTIERATorta delicata e ricca , fatta di pasta frolla ripiena di grano bollito nel latte, di cannella e di zucchero, di ricotta fresca di pecora e di uova , di frutta candita e, volendo di cioccolata , il tutto profumato di acqua di fiori d’arancio.

Non tralasciamo di centellinarvi su’ un bicchierino di liquore ai quattro agrumi o di liquore di erbe di Montevegine o di Strega, o, se preferite, di nocillo

Settimia Cicinnati, scrittrice

Vittorio Gleijeses, proficuo autore di saggi relativi a luoghi, tradizioni e personaggi della storia di Napoli e del Mezzogiorno d’Italia, ci ricorda che a primavera, con

il risveglio della natura (la gastronomia campana) essa si arricchisce dei freschi prodotti della terra , specialmente ortaggi e vedure, e si insaporisce di quegli aromi- sedano e rosmarino, prezzemolo e basilico, menta ed origano – che, usati con larghezza, insapienti miscugli, in abili triti, con un innato sfruttamento artistico del colore, danno sapore e piacevolezza ai cibi piu’ semplici e modesti.

Erbe ed aromi dei crinali delle colline ma anche erbe di raffinati pascoli che gli animali e la sapiente manualitàmozzarella di uomini che da millenni si tramandano l’arte casearia, trasformano in mozzarelle , caciocavallo, burrino,276508 scamorza etc : prelibatezze! Il mangiar “dialettale della cucina campana” (come viene definito dalla Accademie specialistiche): un un infinita’ di aromi, erbe, zuppe, pasta e…,prodotti caseari, vini bianchi e rossi di colori, sfumature, pienezze di raro pregio . Un buon piatto di pasta, ben condito, e’ “una poesia” si sosteneva nelle cronache di un tempo!276508 Eh si, di questo alimento,nelle diverse epoche, poeti, scrittori, musicisti ( esilaranti gli aneddoti su Rossini 276508e la pasta ) hanno narrato . Che dire dei “maccheroni” che danno luogo addirittura ad pizzaAaAun genere letterario: la poesia maccheronica, impasto, proprio come la pasta di cultura raffinata, graffiante, popolare che si fa gioco , affermandosi, sia del latino ancora in uso, sia dell’italiano dotto.

La pizza… l’occhio la guarda ammaliato da un tripudio di colori con tinte ora sfumate, ora marcate.

Ne senti il profumo che , appena uscita dal forno, (rigorosamente a legna) si impadronisce dell’ambiente, diffondendo il leggero crepitio dell’impasto appena colto da un attento orecchio.

Anche la regina la scelse come pietanza regale… chi ? ma la margherita capitata non si sa se per caso o attratta dai racconti e dagli efflumi, al locale di don Raffaele: fu un incontro tra due regine…era il 1889!